La nostra storia virtuale
Oggi lasciamo perdere tutte le regole di SEO, di leggibilità e tutto quello che ci costringe a limitare la nostra incontinenza verbale, e vi raccontiamo la nostra storia.
L’articolo di oggi è solo il racconto sconclusionato e celebrativo della nostra relazione d’amore con la VR. Il fatto è che nella presentazione aziendale e sul sito non abbiamo spazio per scrivere quello che vorremmo. Tanto più che l’etichetta del mondo aziendale non vede poi così di buon occhio l’originalità in questo senso.
E infatti la nostra presentazione aziendale è noiosa come tutte le altre.
Sul blog siamo un po’ più liberi. Quindi…
Abbiamo deciso di scrivere in prima persona, ma quanto segue racconta esperienze e ricordi di tutti noi.
Non avevo ancora letto Ready Player One (o visto il film). L’unico riferimento alla realtà virtuale che avevo nel mio vissuto era stato The Lawnmower Man (in Italia Il Tagliaerbe, 1992). Il nome Palmer Luckey (fondatore di Oculus, N.d.A.) forse lo avevo sentito, forse no. La memoria a questo riguardo è piuttosto confusa.
Mi occupavo di Cina e abbigliamento all’epoca.
Era il 2015, non ricordo bene la stagione, ma faceva caldo. Ero a Barcellona per una breve vacanza. A casa di un amico, sul divano, mentre giocavo con il suo cane, provo per la prima volta un cardboard con un video 360. Il video è una semplice ripresa con rig di GoPro piazzato su un casco a sua volta sulla testa di un surfista. Il surfista cade dalla tavola e io con lui. In un secondo sono circondato da pesci che nuotano in acqua turchese. La mia mano continua ad accarezzare il cane seduto accanto a me sul divano.
La qualità video è scadente, il sonoro pure, ma è la mia prima esperienza virtuale e rimango folgorato. Sono talmente emozionato che non riesco più a pensare ad altro per tutto il giorno. Mando decine di vocali con Whatsapp a tutte le persone che conosco.
Come immaginerai non ci volle molto a convincermi ad entrare a far parte del progetto Augmenta, che allora aveva appena mosso i primi passi fuori dall’oceano burocratico che in Italia ti impongono di dominare per aprire un’azienda.
I problemi tecnici della realtà virtuale erano da anni praticamente insormontabili. I visori erano troppo ingombranti e/o troppo costosi per poter essere piazzati sul mercato degli utenti normali. Ma anche la tecnologia informatica non era assolutamente in grado di riprodurre con una fedeltà quanto meno decente elementi grafici atti a creare un ambiente virtuale. Oltre a questo, c’erano altre questioni altamente tecniche, come i DoF (Degrees of Freedom), FoV (Field of View), etc. Per cui la VR rimaneva appannaggio di ambienti militari e sperimentali, dove c’erano budget molto alti da poterle dedicare.
Queste in soldoni le ragioni per cui la tecnologia è stata di moda in ripetute occasioni nelle discussioni tra tecnici, ma non è mai uscita dai circoli dei nerd.
Fino ad ora. E per ora intendo gli anni dal 2012 al 2015. Escono Oculus DK 1 e DK2 (DK sta per developer kit, il visore veniva venduto cioè solo a sviluppatori), e poi finalmente la prima versione per consumatori (CV1) con i comandi manuali Oculus Touch.
Dopo il cardboard di cui sopra, posso finalmente provare i visori seri…e ho la scusa che lo posso fare per lavoro!
Il primo gioco con cui mi cimento è già abbastanza evoluto: Robo Recall.
Per un’ora e mezza senza accorgermene sparo a robot antropomorfi, raccolgo proiettili a mezz’aria, smembro droni con le mie mani. È un delirio totale. Il mio. Non mi rendo assolutamente conto del fatto che il tempo sta passando. Mi sembra di essere dentro un film, anche se la grafica non è così fotorealistica.
E qui mi rendo conto del potere immenso della tecnologia per la prima volta.
Ma l’esperienza che mi ha definitivamente fatto capire cosa significhi la parola immersivo riferita alla realtà virtuale viene qualche mese dopo.
Anche in questo caso si tratta di un gioco. Lo portavamo come intrattenimento per un cliente. Il gioco si chiama The Climb e simula l’arrampicata libera.
Le uniche cose che si vedono sono le mani e chiaramente le vie su cui arrampicarsi. Ma è sufficiente. Il senso di vertigine è talmente reale che ad un certo punto, alla fine di una scalata, decido di fare una prova e sfidare me stesso.
La fine della via è sulla sommità di una montagna che dà su una baia del Sud-est asiatico. Sono in piedi su un quadrato di non più di 1x1m. Questo però nell’esperienza virtuale. Nella realtà sono sul pavimento di un capannone nella periferia milanese e ho a disposizione svariati metri per camminare indisturbato.
Mi tolgo il visore un attimo per controllare di avere abbastanza pavimento intorno a me per poter fare almeno un passo. Ce n’è per poterne fare un centinaio. Mi rimetto il visore e provo a fare il passo nel vuoto virtuale.
Non ci riesco. Ritolgo il visore e ricontrollo. Lo rimetto, ma niente da fare. La forza suggestiva di quello che vedo con il visore (cima di montagna con sotto il vuoto della baia) è più forte della consapevolezza razionale della realtà.
Sono costretto ad ammettere che non sono MAI riuscito a fare quel passo.
La simulazione virtuale è talmente potente che nemmeno le evidenti incongruenze estetiche con la realtà (grafica NON fotorealistica), e la mancanza di alcuni stimoli fondamentali (tattili e olfattivi) ne minano l’immersività. Una volta messo il visore, sei dentro, punto.
Tutto ciò è per un gamer pentito e in riabilitazione come me un sogno o incubo divenuto realtà.
La realtà virtuale porta la suprema arte del videogame ad un livello ulteriore. La partecipazione del fruitore nello svolgimento dell’opera d’arte è ora totale e completa.
I limiti di quello che si può creare in VR sono davvero pochi, e per lo più principalmente di carattere economico. Sviluppare un’esperienza di un certo livello richiede tempo e persone in grado di programmare e modellare, perciò parecchio denaro.
Ma non vorrei che pensassi che sono entrato nel mondo della VR perché sono un nerd dei videogiochi. Perché, anche se è così, non mi sarei mai imbarcato in un’impresa simile solo per interesse videoludico. Anche perché, non serve aprire un’azienda, per avere videogiochi in VR.
La ragione per cui ho deciso di affrontare, problemi burocratici, maleducazione di potenziali clienti, frustrazione per le pretese assurde degli stessi che poi spariscono senza lasciare traccia, etc, è che siamo convinti che lo spatial computing (realtà virtuale e aumentata) sia una rivoluzione in atto che potrebbe avere lo stesso impatto di internet. E non volevo perdermi l’occasione di esserne parte.
Parliamoci chiaro. Se io avessi avuto a scuola i mezzi aumentati o virtuali che esistono ora per studiare, avrei senza dubbio ottenuto risultati molto più interessanti nelle materie scientifiche.
Se quando mi portavano a vedere un museo da ragazzino (grazie mamma, comunque!), avessi avuto accesso a simulazioni virtuali o a contenuti aumentati, il mio entusiasmo, inesistente all’epoca, sarebbe stato assoluto.
Gli stessi libri di scuola, se fossero integrati con animazioni 3D di realtà aumentata, renderebbero studiare molto più semplice, efficace e divertente.
Insomma, molto di ciò che a livello educativo e formativo risulta come un obbligo sgradito, ha chiaramente dei grandissimi margini di miglioramento attraverso l’implementazione di AR e VR. Miglioramento che si traduce in maggiore efficacia del programma didattico, sia esso scolastico o aziendale, evidentemente.
Ma non fermiamoci a questo. Sono un (ex?) artista marziale. Una parte fondamentale dell’allenamento al combattimento è da fare necessariamente a coppie. E non parlo solo dello sparring. Ci sono esercizi per la coordinazione (i cosiddetti riflessi) che necessitano di stimoli esterni non controllabili, per poter essere allenanti ed efficaci.
Questo aspetto può benissimo essere allenato in VR, per esempio. C’è un gioco semplicissimo, BoxVR che permette di allenare proprio la coordinazione occhio – movimento.
Pensavo che mi sarei pian piano raffreddato nel mio entusiasmo per gli ambienti immersivi, ma doveva arrivare la pandemia per farmi ricredere.
L’impossibilità di riunirsi ha creato un problema da risolvere per tutte le aziende. Si diffonde il cosiddetto smart-working. Noi lo smart-working lo pratichiamo da anni, essendo divisi tra Spagna, Germania e Italia, ma stiamo divagando per mero desiderio di mostrarti la nostra internazionalità.
Smart-working, dicevamo. Per questo vengono usate piattaforme che già esistevano, ma che conoscono una nuova fortuna. Prima fra tutte Zoom, ma anche Google Meet, Microsoft Teams etc. Ho una cartella solo di app di questo tipo sul mio telefono!
E sono certo che pure tu ne hai usata almeno una nei mesi passati, se non per lavoro, almeno per connetterti con familiari e amici.
Non male in tempi di distanziamento FISICO…sì, ecco, Language Nerd Mode ON: distanziamento sociale non ha senso linguisticamente parlando, proprio perché grazie alle piattaforme di cui sopra, ma anche grazie al telefono, possiamo rimanere connessi con chiunque. Il fatto che tutto il mondo lo usi, non cambia la sostanza. Language Nerd Mode OFF.
Ma tutte le piattaforme menzionate sopra hanno parecchi limiti. Per questo nel periodo pandemico abbiamo deciso di accelerare una tendenza che era comunque già in atto e investito nella nostra piattaforma per riunioni virtuali.
Non mi interessa pubblicizzarla qui, abbiamo già parlato delle varie possibilità che le piattaforme virtuali, inclusa la nostra, possono dare a chi le usa in questo articolo. Per cui se sei interessato, puoi dare un’occhiata.
Quello che è invece incredibile per me è la vicinanza che ho sentito con i miei soci, nonostante ci troviamo in tre paesi differenti.
Mi sentivo emozionato come un bambino che prova un gioco nuovo. Potevo toccare idealmente gli avatar dei miei amici, e per quanto strano possa sembrare, pareva proprio di essere lì insieme, in questa futuristica aula virtuale (se vi interessa, questa la landing page per vedere di che si tratta).
Siamo ormai arrivati al termine di questo delirio personale e senza un preciso scopo. Abbiamo avuto alti e bassi da un punto di vista professionale in questi anni. Ogni anno, dal 2015, tutti nel settore dicevamo a noi stessi e al mondo, che era l’anno giusto per il decollo della VR. Non lo è mai stato e il nostro entusiasmo ha alle volte vacillato. Parlo per lo meno del mio.
Quello che però è successo è che ogni anno l’utilizzo della tecnologia ha trovato sempre maggiore diffusione, che le cosiddette infrastrutture per il suo uso migliorano in continuazione e che la rivoluzione annunciata, si è di fatto trasformata in un evento lento ma inesorabile.
Siamo alla fine del 2020 mentre scrivo, proprio l’ultimo giorno dell’anno. Non era voluto, ma tutto sommato mi pare ci stia bene.
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